martedì 19 luglio 2016

La mia battaglia per l'Africa

Parla il medico piacentino Francesca Lipeti. Dal 2015 è al lavoro in una zona di confine tra Kenya e Tanzania. Gli inizi nel 1994.

Dalla metà degli anni ’90 è al lavoro in Africa, prima in Kenya tra i Masai a Lengesim, nella struttura sanitaria avviata da mons. Domenico Pozzi, dal 2015 più a Sud, verso il confine con la Tanzania, a Ilbissil, a 150 km dalla capitale Nairobi, per dar vita a un nuovo centro di salute per i più poveri.
È instancabile l’opera del medico piacentino Francesca Lipeti.
“Ilbissil - racconta al telefono Francesca - è una cittadina di confine che si sta sviluppando molto rapidamente. Ha due grandi mercati del bestiame ed è raggiungibile grazie ad una strada asfaltata.
Vi convivono più etnie, religioni e culture diverse.
È un lungo andirivieni dalla Tanzania, il commercio è molto sviluppato e si trova facilmente lavoro.
Di fatto, però, molti vivono alla giornata: qui non arrivano neanche gli aiuti del Governo e quelli internazionali.
L’area urbana conta circa 8mila persone, ma con il circondario si arriva anche a 100mila abitanti.
Sul piano religioso, oltre ai cattolici, che però non hanno un sacerdote presente stabilmente, vi sono i pentecostali e gli anglicani”.
VERSO UNA ZONA DI CONFINE
Come sei arrivata in questa nuova realtà?
Dopo l’esperienza di Lengesim, che porto sempre nel mio cuore, avrei potuto rientrare in Italia o collegarmi all’ONU o all’UNICEF.
Non volevo però perdere l’esperienza vissuta in Kenia; sarei rimasta nella savana, ma non so perché, ad un certo punto, ho avvertito questo invito ad andare verso una città.
Mi è stato consigliato di non vivere proprio al confine tra due Stati; si tratta di solito di zone molto rischiose per il terrorismo e i conflitti, e quindi molto instabili.
Alla fine sono capitata qui, ho rimediato due stanzette in una clinica, che potevano essere sistemate: era il posto adatto a me.
— Ora di cosa ti occupi? 
Sono in un ambulatorio in periferia, tra le baracche, e mi occupo sostanzialmente di medicina di base con tante vaccinazioni.
Essendo zona di passaggio, passano anche le più varie malattie.
A livello sanitario la città è servita da un centro di salute del Governo, ma il personale è scarso, le medicine non ci sono, per cui attualmente non si può fare tanto.
Non sono appoggiata a nessun ospedale, lavoro sostanzialmente da sola, ho un aiutante che si occupa della farmacia, una ragazza che fa le pulizie e un guardiano; in tutto, uno staff di quattro persone.
E ho un gruppo di amici del luogo che mi aiutano dal punto di vista amministrativo nei contatti con il governo, nel rinnovo delle licenze, nell’approvvigionamento di medicinali.
— Non sei quindi legata a nessuna organizzazione nella tua opera…
No, mi sono, per così dire, messa in gioco da sola.
Ho voluto misurare le mie capacità.
Mi sono dovuta reinventare: da un punto di vista medico ero abituata ad un certo tipo di malattie e conoscevo bene i ritmi e le caratteristiche del luogo precedente.; ora ho cambiato modo di lavorare e sto imparando cose nuove.
A Ilbissil la situazione sociale non è facile: la gente che arriva dai villaggi per cercare lavoro, perde le proprie radici, la propria identità culturale e in questo guazzabuglio non è facile orientarsi.
Ci sono situazioni di disagio, persone che si sentono smarrite con un forte senso di frustrazione: sono state catapultate in una realtà più individualista di quella dei loro villaggi di origine.
I PROGETTI IN CANTIERE
— Guardiamo allora al futuro: che progetti hai?
Prima di tutto, voglio conoscere bene la situazione e le persone.
Una volta che stabilisci rapporti significativi, si potrà essere più incisivi negli interventi. Concretamente ci terrei a rafforzare il laboratorio, perché più fai analisi, meglio si possono curare le persone a cui si evita di andare in ospedali lontani, facendo loro risparmiare tempo e denaro.
Poi, vorrei creare un centro per i giovani, dove possano incontrarsi e insegnare loro un po’ di informatica.
Un’altra idea è un progetto per le persone denutrite che, a causa dell’AIDS o perché povere, o per malattie gravi (tumori, tubercolosi), non possono procurarsi da mangiare in maniera adeguata.
In questa missione sono sostenuta dall’associazione piacentina “L’albero di Yoshua”, che è il nome biblico di Giosuè in lingua Masai.
Ci ispiriamo al Giosuè della Sacra Scrittura, una figura straordinaria nel seguire il Signore e nel condurre il popolo di Israele: colui che entra nella Terra promessa e che ha Dio al suo fianco. L’associazione è formata da persone che mi hanno sempre aiutato; il presidente è il commercialista Leonardo Biolchi.
— L’Africa è il continente della speranza, ma è anche schiacciato dalle guerre, dall’ISIS… Che cosa insegna l’Africa al mondo?”
L’importanza dei rapporti umani, dell’essere più dell’avere. Noi con i nostri modelli televisivi e pubblicitari stiamo imponendo al popolo africano un altro modo di vivere, che è la logica dell’avere e del possesso. Invece l’Africa, che non deve perdere la sua identità, ci insegna il senso di comunità, l’aiuto reciproco e che i rapporti interpersonali sono fondamentali.
— Tu non hai mai paura? 
Non ho paura, anche se questo luogo è molto meno sicuro di dove fossi prima.
Vi è instabilità sociale, vi sono furti, violenze, liti e contese.
Poi il Kenya è esposto a fenomeni di terrorismo; confina per buona parte con la Somalia che non ha un governo stabile da più di trent’anni ed è sempre scossa da una guerra civile.
Alcune frange terroristiche, provenienti da queste zone, fanno raid contro la popolazione del Kenya con attentati cruenti che mietono molte vittime.
I motivi per aver paura ci sono, ma io continuo con determinazione questo lavoro.

Davide Maloberti - Riccardo Tonna da Il Nuovo Giornale del 17/06/16


lunedì 11 luglio 2016

Commento al Vangelo di Matteo e al salmo 84

"Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccider l'anima..." Mt 10,28


"Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annunzia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli,
per chi ritorna a lui con tutto il cuore." salmo 84









lunedì 4 luglio 2016

Il teologo Basilio Petrà e lo sguardo verso la Chiesa Ortodossa

E’ un mondo che in parte non riusciamo a cogliere fino in fondo, ma con il quale i papi, da Paolo VI in poi, cercano di aprire un dialogo costruttivo.
Stiamo parlando del mondo ortodosso, che a Creta a fine giugno ha vissuto il suo primo Concilio.
Ne parliamo con don Basilio Petrà, sacerdote di Prato, intervenuto nelle scorse settimane al convegno nazionale dal SAE al Centro pastorale Bellotta di Pontenure.
— Don Basilio, la Chiesa respira con due polmoni, l’Oriente e l’Occidente. Lei, che è nato da genitori ortodossi, come vede tutto questo?
Penso che bisognerebbe essere più consapevoli del fatto di avere più polmoni. Anzi, a dire il vero non sono soltanto due. C’è anche il polmone siriaco, una tradizione da non dimenticare. Un teologo dovrebbe prendere atto di questa molteplicità di presenze e di espressioni della Chiesa. Occorre, in altre parole, un’ampiezza cattolica reale del pensare e del sentire.
 — Quali sono le caratteristiche principali del polmone orientale?
L’Oriente greco è segnato dalla percezione dell’esistenza umana chiamata alla divinizzazione. L’uomo è stato creato per diventare partecipe della natura divina condividendo l’esistenza di Dio in un disegno di comunione vitale. Nell’Oriente si avverte con forza che la Chiesa si colloca all’interno di una tradizione vivente con cui va mantenuto un legame costante. Tutto ciò non si oppone all’apertura alla novità e alle nuove necessità. Il Concilio ecumenico Vaticano II in tanti punti si ispira alla teologia dei padri Greci, riprende la prospettiva antropologica cristocentrica e la concezione della chiamata dell’uomo a partecipare e condividere l’esistenza di Dio in Cristo. Il Concilio è stato perciò il luogo in cui i due polmoni hanno cominciato a sintonizzarsi. Oggi, consapevoli di ciò che ci unisce, andrebbero riprese con maggiore decisione le sollecitazioni avviate dal Concilio.
 — Qual è il ruolo dello Spirito Santo nell’esperienza ortodossa?
In passato si è molto insistito sul maggior carattere pneumatocentrico della tradizione ortodossa rispetto alla Chiesa latina.
In parte è vero, ma nell’Oriente lo Spirito non è mai visto indipendentemente dal Cristo e dalla vita trinitaria.
Lo Spirito ha un ruolo centrale perché tutto è dovuto alla sua azione.
L’azione dello Spirito è di “cristificare” il mondo e l’uomo, cioè di portare alla partecipazione della vita divina l’uomo e il cosmo.
Lo Spirito è chiamato a trasformare l’uomo in modo da diventare sempre più intimamente simile, come struttura, come modo di pensare e di agire, al Cristo Signore.
Praticamente, “vivere in Cristo” secondo l’indicazione di San Paolo.
Gli ortodossi insistono che non si tratta di aggiungere virtù a virtù, ma di esistere in un certo modo, cioè acquisire l’esistenza conforme all’esistenza stessa di Dio.
Lo Spirito chiede a me come persona di entrare in un rapporto di comunione interiore sempre maggiore con il Cristo.
— Nei “Racconti di un pellegrino russo” si parla della preghiera del cuore con l’invocazione: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me peccatore”. In questo quadro, che significato ha questa preghiera?
La “preghiera continua” è l’elemento fondamentale che esprime più adeguatamente la prospettiva spirituale dell’Ortodossia.
Nella preghiera di Gesù vi è il riconoscimento della gloria divina, che si fa carne in Cristo e che arriva a noi attraverso la figliolanza divina di Cristo.
Vi è poi la consapevolezza del nostro peccato, della nostra povertà, del nostro non avere nessun diritto da vantare nei confronti di Dio.
Noi siamo caratterizzati dalla nostra ingiustizia, siamo peccatori…
Però fra il Signore e noi c’è il ponte, cioè la misericordia.
Il Cristo, nella prospettiva orientale, non è una presenza lontana.
In forza del battesimo noi siamo viventi in Cristo e Cristo è in noi.
Possono sembrare riflessioni astratte; in realtà questa preghiera manifesta la sua forza quando l’orante concretamente vive.
— Dall’incontro a Cuba a febbraio tra Francesco e il patriarca di Mosca Kirill alla visite a Lesbo e in Armenia: come vive la Chiesa ortodossa queste aperture al dialogo?
Ogni incontro andrebbe visto separatamente.
La Chiesa ortodossa non è come la Chiesa cattolica, ma è una comunione di Chiese nazionali autocefale.
Non ha al suo interno una figura dotata di autorità come il Romano Pontefice.
Il Patriarca di Costantinopoli ha un primato d’onore che vorrebbe estendere maggiormente o comunque vedere più riconosciuto, ma non può parlare a nome dell’Ortodossia se non ha il consenso delle altre Chiese.
A Cuba papa Francesco e Kirill hanno compiuto un passo importante.
Il Patriarca ha riconosciuto l’esistenza delle chiese greco-cattoliche.
L’incontro di Lesbo, invece, ha colpito molto ortodossi greci, ma non bisogna da qui trarre conclusioni universali per l’Ortodossia, ogni volta le cose vanno viste nel loro proprio contesto. Anche riguardo al Conclio pan-ortodosso, il cammino non è stato facile.
Se ne parlava dagli inizi del ‘900, poi la cosa si bloccò anche per la fine del socialismo reale nei Paesi del blocco sovietico.
Alla fine il Patriarca di Costantinopoli ha accelerato e il Concilio si è messo in moto. è però sufficiente che una piccola Chiesa come Cipro, che conta 300mila fedeli, blocchi un documento, che quest’ultimo non avrà valenza per tutta l’Ortodossia.
Il Concilio vuole mostrare in primo luogo agli ortodossi stessi che le Chiese ortodosse sono un’unica Chiesa.
 — Qual è invece la forza di avere un’unica autorità come il Papa nella Chiesa cattolica?
C’è un teologo e filosofo greco giovane, l’archimandrita Giovanni Panteleimon Manussakis, che sostiene che  l'Ortodossia ha bisogno di più elementi simili a quelli del Papato e che la Chiesa cattolica, nel vedere il Papato, avrebbe bisogno di più elementi simili a quelli dell’Ortodossia.
La Chiesa ortodossa dovrebbe cioè darsi più strumenti per vivere l’unità, ma senza l’investimento teologico che la Chiesa cattolica dà al Papato.
Dall’altra parte, il Papato avrebbe bisogno di dare maggiore spazio alla sinodalità e all’autonomia delle Chiese locali, articolando meglio, secondo lui, l’unità e la diversità.

Davide Maloberti
Riccardo Tonna
da Il Nuovo Giornale 1/07/2016

domenica 3 luglio 2016

SCRIVERE E' MAGIA

HURRICANE  Il grido dell'innocenza è un film suggestivo  con una eccellente  performance di Denzel Washington nella parte del protagonista
Rubin Hurricane Carter.
Rubin Carter, noto anche con il soprannome Hurricane (1937-2014), è stato un pugile statunitense naturalizzato canadese,
La sua carriera di pugile si è svolta tra il 1961 e il 1966, ma Carter deve parte della sua notorietà all'essere stato accusato di un triplice omicidio, avvenuto il 17 giugno 1966 a Paterson, nel New Jersey: sottoposto a processo, fu condannato a due ergastoli ma fu scarcerato nel 1985, quando l'accusa rinunciò a muovere in giudizio una terza volta contro l'illegittimità processuale sollevata dalla Corte Federale sulla base di un possibile
pregiudizio razziale subito da Rubin durante l'incriminazione.
La sua storia ha ispirato un film, Hurricane - Il grido dell'innocenza, della cui colonna sonora fa parte una celebre canzone di Bob Dylan
Durante la sua detenzione, Carter scrisse dell'irregolare vicenda giudiziaria subita in un libro che fece parlare e cantare personaggi di spicco come Cassius Clay e il già citato Bob Dylan. 
Dopo 22 anni di reclusione il suo caso fu riesaminato senza pregiudizi razziali e venne decretata la sua piena innocenza.
Al di là della ricostruzione romanzata della storia, però fondata sulla vita di Carter, Denzel ci fa immedesimare nel personaggio tanto da farci provare il passaggio da un'emozione all'altra, fino a tirare un sospiro di sollievo alla lettura dell'ordinanza di scarcerazione.
Una piccola perla, a mio avviso,  un capolavoro della sceneggiatura, è il discorso di Rubin sulla scrittura.
Queste parole emergono dal dialogo in carcere tra Rubin e Lesra, suo giovane amico e ammiratore.
"Scrivere è... è magia. Ti è capitato di pensarlo?"
"Si, a volte si."
"Quando ho cominciato a scrivere, ho scoperto che non stavo raccontando solo una storia. Scrivere è un'arma. Ed è un'arma più potente di qualsiasi pugno. Ogni volta che mi sono messo a scrivere, mi sono levato sopra le mura di questa prigione e il mio sguardo andava oltre, al di là dello stato del New Jersey. Ho potuto vedere Nelson Mandela nella sua cella, che scriveva il suo libro. Ho visto lui, ho visto Dostoevskij, ho visto Victor Hugo, Emile Zola. E loro mi dicevano: Ru', che fai lì dentro? E io: ehi, io vi conosco ragazzi! È magia, Les!"
Sono parole che sanno emozionare, che sanno cogliere il valore della scrittura che  ti può dare la vera libertà, ti può portare dove vuoi…

Con la scrittura puoi raggiungere migliaia di persone e donare a tutti i tuoi pensieri, le tue suggestioni comunicando chi sei veramente…